La situazione che stiamo vivendo ha provocato molti sul perché Dio “permetta” simili tragedie. Qualcuno è arrivato al punto di accusare Dio per questo; altri l’hanno presentata come una punizione di Dio contro il peccato dell’uomo.
Il Vangelo di oggi, domenica 22 marzo, tocca lo stesso tema…: il dolore e la fede.
1. La questione circa il dolore sollevata dai discepoli nell’introduzione.
Esisteva al tempo di Gesù (e forse non solo al suo!), la convinzione che il male, la malattia, il dolore, fossero la punizione di Dio e la conseguenza del peccato. Questa teoria, detta teologia della retribuzione, aveva al suo interno due varianti. La prima riteneva che il peccato fosse personale (“chi ha peccato: lui…?”); la seconda che fosse “ereditario” (“chi ha peccato:…i suoi genitori?”).
2. La risposta di Gesù
Gesù afferma che la malattia (potremmo oggi dire il coronavirus) non è una punizione voluta da Dio, non è Dio che punisce l’uomo facendogli del male. Una riproposizione attuale di questa teologia negata da Gesù, è quella che si chiede: “Perché soffre questa persona se non ha mai fatto nulla di male? Perché lui soffre e invece i cattivi no? Perché il dolore innocente? (Come se invece il dolore “colpevole” fosse giustificato…)”. Gesù non offre una spiegazione teorica sul perché del dolore: lo assume come un dato naturale, un elemento che c’è. Invita però ad assumerlo (“Si manifestino in lui le opere di Dio”), come luogo in cui rendere presente Dio attraverso i segni della guarigione e della carità.
3. Senso attuale della risposta di Gesù.
Gesù col suo agire in questa pagina evangelica, è come se ci dicesse quattro cose sul tema del dolore:
1. Il dolore non è una punizione di Dio: non lo è mai stato (nemmeno nel racconto del peccato originale, dove è conseguenza del peccato commesso, non punizione) e mai lo sarà;
2. Dio non vuole il male ma il bene dell’uomo (guarisce il cieco: sempre nelle sue azioni Gesù agisce contro il male che attanaglia l’uomo, non lo approva);
3. il dolore può essere assunto nel progetto d’amore di Dio e in Lui trasformato in bene (valore “redentivi” del dolore dell’uomo come “partecipazione alla croce di Cristo”), offre cioè un senso, un significato, al soffrire (e la mancanza di senso è, se ben ci pensiamo, il vero problema del soffrire…);
4. il dramma del dolore dell’uomo non deve diventare argomento per negare l’amore di Dio: Dio resta Amore anche se l’uomo soffre. Anzi: il soffrire deve essere vissuto dentro la fede dell’Amore di Dio. Non bisogna cedere alla tentazione di porre i due elementi (innocenza dell’uomo sofferente e amore di Dio) in alternativa. Non bisogna, per salvare l’innocenza dell’uomo, accusare Dio (“se l’uomo soffre è perché Dio non c’è o è uno spettatore crudele”); né, per salvare Dio, accusare l’uomo (“se l’uomo soffre è perché ha peccato”). Dolore dell’uomo innocente e Amore di Dio stanno insieme: in Gesù questo incontro raggiunge il suo vertice. Lui è per eccellenza l’Innocente che soffre ingiustamente; Lui è l’Amore di Dio che si è rivelato. E’ Dio crocifisso per Amore.
Troviamo così un principio di fondo decisivo ed imprescindibile per qualsiasi ragionamento sul dolore che voglia dirsi cristiano: anziché ragionare in astratto su Dio e il dolore, bisogna guardare alla storia di Gesù di Nazareth e cercare in questo avvenimento di passione, morte e risurrezione la luce per affrontare il dolore che viviamo.
In Cristo, Dio si manifesta vicino ad ogni uomo sofferente: va Lui in croce al posto degli uomini, si fa solidale con la loro storia di dolore e di morte.
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