Ciò che abbiamo vissuto in questi mesi occorre che rimanga nel cuore e nella memoria di ciascuno di noi. Ma cosa possiamo conservare per non tornare ad essere “come prima”?
Ciò che è accaduto ci ha dimostrato che siamo tutti uguali davanti al virus, ma che lo si vive da “diversi”. Ci sono stati, infatti, quelli che non potevano curarsi, quelli che hanno perso il lavoro, quelli che ci hanno guadagnato, eccetera… In altre parole, abbiamo scoperto, se ce n’era bisogno, che le diseguaglianze vengono dalle ingiustizie degli uomini! Non permettiamoci di ricadere in queste ingiustizie, adoperiamoci in tutti i modi per un modo più giusto e solidale!
In ciò che si è sperimentato, abbiamo riscoperto il valore dell’attimo presente. Nel momento in cui sono saltati tanti programmi, sogni e progetti, ci siamo accorti di quanto era importante vivere bene l’attimo presente. E in questo abbiamo compreso che Dio era all’opera lo stesso e costruiva ponti, relazioni e comunità in una maniera inaspettata, in un modo che i nostri progetti non avrebbero potuto realizzare.
In questo tempo abbiamo imparato anche nuove vie e strumenti di comunicazione, che ci hanno permesso di restare collegati con tanti, anche con tutti. Eppure questi strumenti non hanno soppresso la nostra sete di relazioni e di rapporti veri. Ci siamo accorti che in tutti noi c’è un bisogno universale di relazione con gli altri. Scriveva a tal proposito il vescovo di Pinerolo monsignor Olivero: “Questo tempo parla, ci parla. Questo tempo urla. Ci suggerisce di cambiare. La società che ci sta alle spalle non era la “migliore delle società possibili”. Questo è il tempo per sognare qualcosa di nuovo. Quella era una società fondata sull’individuo. Tutti eravamo ormai persuasi di essere “pensabili a prescindere dalle nostre relazioni”. Tutti eravamo convinti che le relazioni fossero un optional che abbellisce la vita. Una ciliegina sulla torta, un dolcetto a fine pasto. In questo isolamento ci siamo resi conto che le relazioni ci mancano come l’aria. Perché le relazioni sono vitali, non secondarie. Noi siamo le relazioni che costruiamo. Ciò significa riscoprire la comunità. Ma non comunità chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con propria passione e fiducia. Non una Chiesa che va in chiesa, ma una Chiesa che va a tutti. Carica di entusiasmo, passione, speranza, affetto”.
Questo tempo ci ha rivelato una grande sete di Dio in tantissime persone. Così abbiamo colto che ci sono cose più essenziali di altre e che c’è dentro di noi un desiderio di Dio e di assoluto che è decisivo. E su questo incontrare tutti gli uomini. Occorrono, però, per questo, non cristiani “devoti” (in modo individualistico, intimistico, astratto, ideologico), ma credenti che credono in Dio per nutrire la propria vita e per riuscire a credere alla vita, nella buona e nella cattiva sorte. Credenti così faranno rinascere la voglia di andare in chiesa, di andare a Messa, per nutrirsi. Per amare in modo evangelicamente autentico.
Don Paolo
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