La Basilica di Santa Sofia è di nuovo moschea

Ha scosso il mondo intero l’annuncio del presidente turco Recep Tayyip Erdogan che di trasformare l’antica Basilica di Santa Sofia a Istanbul in una moschea.

Dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Unesco nel 1985, Santa Sofia è stata fondata come cattedrale di Costantinopoli (oggi Istanbul, in Turchia) nel VI secolo dC (532-537), sotto Giustiniano I. Conosciuta anche come Chiesa della Divina Sapienza, è la struttura bizantina più importante e uno dei più grandi monumenti del mondo: era la “San Pietro” dei cristiani di oriente, e la chiesa più importante della cristianità dopo il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Per più di un millennio fu la Cattedrale del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli.

Nel 1453 Costantinopoli fu conquista dagli ottomani e Mehmed II impose la conversione a moschea della Basilica di Santa Sofia.
Nel 1934 il presidente turco Kemal Atatürk, fondatore della Turchia moderna, secolarizzò l’edificio, lo rese un monumento laico trasformando Santa Sofia in un museo.
Da ieri, dopo decenni, Santa Sofia è tornata ad essere una moschea, una decisione, quella di Erdogan, che ha profondamente addolorato Papa Francesco.

Che dire?
Da un lato molti osservatori sostengono che il gesto non va collegato all’Islam, ma alla politica di Erdogan che, ormai in declino, tenta di rinsaldare il suo potere col consenso dei fondamentalisti e delle masse popolari della nazione turca. Tanti esponenti islamici (non ultimo l’Iman di Milano) si sono infatti dichiarati contrari alla decisione del nuovo Sultano.
Dall’altro a molti sembra che l’episodio non faccia che confermare il volto dell’Islam: apparentemente dialogante e pacifico nei paesi in cui è minoranza, ma dispotico ed intransigente dove, invece, è maggioranza.
Certamente la prassi di trasformare i luoghi di culto, a seguito di una “conquista”, era usanza diffusa nell’antichità. Ma oggi non siamo nell’antichità. A meno che abbiano ragione coloro che sostengono che avendo l’Islam come religione 1.350 anni, si trovi ancora in pieno medioevo e non abbia fatto i conti col “logos”, come richiesto da papa Benedetto nel suo bellissimo e celeberrimo discorso di Ratisbona.

Non entro nei meandri di queste considerazioni storiche, ma mi limito a rilanciare alcuni elementi irrinunciabili, per noi che accogliamo migranti mussulmani nelle nostre città, per un proficuo dialogo con l’Islam che fatti di questo tipo non devono minare.

  1. Dice il Concilio Vaticano II: i cristiani «debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini, riconoscersi come membra di quel gruppo umano in mezzo a cui vivono, e prender parte, attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell’umana esistenza, alla vita culturale e sociale. Così debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti» (Ad gentes11)
  2. Il documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato tra l’Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb e Sua Santità Papa Francesco, dichiara solennemente:
    “In nome di Dio (…) dichiariamo di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.
    Altresì dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue.
    Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza”.
  3. Come già diceva il cardinal Martini, da parte nostra dobbiamo “assicurare l’accettazione e l’assimilazione di un nucleo minimo di valori comuni; far cogliere la distinzione tra religione e società, tra fede e civiltà; motivare cristianamente il perché della nostra accoglienza; non identificare cristianesimo e occidente (e neppure Islam con fondamentalismo); sfatare l’idea secondo cui i non musulmani sono di fatto non credenti”.

È una sfida che, con la nostra originalità evangelica, dobbiamo affrontare: senza cadere in una reciprocità violenta e di ripicca che nulla avrebbe a che vedere col messaggio di Gesù.

Don Paolo

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