«Mi chiamo Matteo Nassigh, e sono uno che pensa»
UNA TESTIMONIANZA CHE FA PENSARE DI FRONTE AL PROGETTO DI LEGGE SUL FINE VITA…
In settimana è andato in Paradiso un ragazzo del mio decanato di prima: Matteo Nassigh. Pesava 25 chili Matteo, era inchiodato alla carrozzella, non camminava, non parlava, non faceva niente da solo…
Era stato considerato un “vegetale” fino ai 6 anni. La gravidanza era andata bene, poi durante il parto l’asfissia per una negligenza dei medici (in seguito riconosciuta e risarcita dall’ospedale). Dato per spacciato, Matteo invece è sopravvissuto, pur con una prognosi pesantissima e la prospettiva (risultata errata) di crescere cieco e sordo. Con il tempo i genitori si sono resi conto che capiva tutto, che era perfino umorista… La prima a vedere giusto è stata una fisiatra: «questo bambino ha dentro una grandissima presenza, lavorate con lui sulla comunicazione».
«Dopo vari tentativi, quando avevo 6 anni siamo arrivati alla lettoscrittura – mi diceva Matteo – e io ho imparato in fretta a leggere e scrivere perché avevo molto da dire ed ero stufo di non potermi esprimere». Bisogna provare a restare chiusi nel proprio corpo per anni e dover sentire che gli altri ti credono un vegetale: «Appena ho potuto comunicare, la prima cosa che ho detto a mia mamma è stato di piantarla di vestirmi in quel modo. Ero sempre in grigio e io volevo il giallo».
Per comunicare Matteo usava la mano sinistra su una tavoletta, ad una velocità tale che solo sua mamma riusciva ad interpretare.
In occasione della richiesta di suicidio assistito del dj Fabo, Matteo “parlando” con la mano a una giornalista aveva detto: «Io conosco bene la fatica di vivere in un corpo che non ti obbedisce in niente. Voglio dirgli che noi persone cosiddette disabili siamo portatori di messaggi molto importanti per gli altri, noi portiamo una luce. Anch’io a volte ho creduto di voler morire, perché spesso gli altri non ci trattano da persone pensanti, ma da esseri inutili». Il problema di dj Fabo e dei tanti che la pensano come lui, diceva, è che «vedono la disabilità come un’assenza di qualcosa, invece è una diversa presenza». Insomma, i disabili non sono persone che devono diventare il più possibile uguali agli altri, «cambiate lo sguardo e lasciateci la libertà di restare noi stessi, allora noi saremo liberi quanto voi…».
È questione di sguardo: «Se le persone vengono misurate per ciò che fanno, è ovvio che uno come me o dj Fabo vuole solo morire. Ma se venissero capite per quello che sono, tutto cambierebbe. Ci vedete come mancanza di libertà, ma noi siamo libertà, se ci viene permesso di essere diversi».
Non fa una grinza. Ricorda l’aforisma di Einstein: “Ognuno è un genio, ma se si giudica un pesce dall’abilità di arrampicarsi sugli alberi, passerà tutta la vita a credersi stupido’”. A fare la differenza – diceva Matteo – è l’amore, l’unica condizione che renda felice una situazione come la sua. È questione di categorie, insomma: «Se usi quelle dei radicali, noi siamo dei poverini, se però scopri categorie che prevedano la libertà di essere diversi, noi siamo la massima espressione di libertà».
Non era arrabbiato con i medici che lo avevano fatto nascere in un corpo “smangiato e deforme”, non era arrabbiato con nessuno, «il mio spirito ha scelto un corpo così limitato proprio per dimostrare che i limiti sono solo nella nostra testa, la considero la mia missione. Se i miei genitori non fossero stati capaci di guardare oltre, non mi avrebbero salvato dal silenzio e oggi sarei ancora considerato un vegetale senz’anima. Invece ciascuno di noi è un prodigio di bellezza e io lo dimostro ogni giorno vivendo. Pregare mi aiuta molto e il mio rapporto con Dio è costante».
Aveva un unico terrore: i tanti che pretendono di misurare la ‘dignità’ delle vite altrui: «Lo dico chiaro, non uccidetemi mai. Temo sempre che un giorno arrivi uno e dica ‘sopprimiamo i disabili che non parlano’… se accadesse io mi troverei in una situazione poco bella…». Non aveva mai superato lo choc della morte di Eluana Englaro, «quando decisero di toglierle la vita ero scosso, anche lei aveva la sua missione e non l’aveva finita. Se perfezione è camminare, io ed Eluana siamo un disastro, se invece è essere ce la caviamo benissimo».
Matteo ha perfino fondato un’associazione: “Per la cura di chi cura (CxC)”.
«Tutti noi dobbiamo lasciare un segno importante nel mondo, ciascuno nel suo modo e nel suo tempo, ma non si può vivere senza lasciare segni».
Matteo, partito per il Paradiso a 24 anni, ha lasciato a tutti noi che lo abbiamo conosciuto, un segno luminoso.
«Tutti noi veniamo per una missione e, se la facciamo, stiamo bene con noi stessi e con gli altri, ma se non la facciamo non stiamo bene e ci sentiamo vuoti di senso. Trovare il senso del nostro essere è la cosa più importante che ci sia, se non lo troviamo siamo persone che non sanno vedere oltre il visibile. Invece, se lo troviamo siamo molto luminosi e viviamo molto bene, anche in condizioni faticose e in corpi faticosi. Il senso è il percorso da percorrere.»
dP
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