«Intendo lanciare un allarme: se il virus occupa tutti i discorsi, non si riesce a parlare d’altro. Quando diremo le parole belle, buone, che svelano il senso delle cose? Se il tempo è tutto dedicato alle cautele, a inseguire le informazioni, quando troveremo il tempo per pensare, per pregare, per coltivare gli affetti e per praticare la carità? Se l’animo è occupato dalla paura e agitato, dove troverà dimora la speranza? Se uomini e donne vivono senza riconoscere di essere creature di Dio, amate e salvate, come sarà possibile che la vicenda umana diventi “divina commedia”?».
Vengono in mente le parole, attribuite a Madre Teresa di Calcutta, che, in una poesia, dice: «Non aspettare di finire l’università, di innamorarti, di trovare lavoro, di sposarti, di avere figli, di vederli sistemati, di perdere quei dieci chili, che arrivi il venerdì sera o la domenica mattina, la primavera, l’estate, l’autunno o l’inverno. Non c’è momento migliore di questo per essere felice. La felicità è un percorso, non una destinazione (…) Dietro ogni traguardo c’è una nuova partenza. Dietro ogni risultato c’è un’altra sfida. Finché sei vivo, sentiti vivo».
Il nostro Arcivescovo applica al tempo della pandemia ciò che Madre Teresa afferma in generale per tutta la vita.
È un po’ come se monsignor Delpini, parafrasando il testo della Santa di Calcutta, dicesse: «Non aspettare, per vivere, che finisca il covid; sentiti vivo anche adesso, nella pandemia del covid; non attendere un altro momento per vivere e cercare la felicità».
L’impressione invece è che – vuoi per la sorpresa e la conseguente paralisi che la pandemia ha provocato in tutti, vuoi per le restrizioni “sanitarie” – ci siamo un po’ tutti bloccati e messi in “standby”. Non mi riferisco solo al fatto che tante attività si sono materialmente fermate (negozi, aziende, iniziative culturali, scuole…). Penso ad uno stato interiore, “spirituale” se vogliamo, come suggerisce mons. Delpini: si è fatto strada un atteggiamento che in questo anno ci ha resi più lenti e pigri, in attesa che qualcosa accada. Nel frattempo, restiamo quasi fermi, immobili.
Certo, un po’ esagero in questa descrizione, perché è pur vero che in vario modo ci si è dati da fare.
Ma l’impressione è che – in fondo in fondo – si sia entrati in una modalità di attesa, che ci fa vivere un po’ al di sotto delle nostre effettive capacità. Questo anno di covid sembra averci consegnato ad una sorta di letargo, in cui tutto si è un po’ allentato, affievolito, sbiadito… Quasi si attendesse di vivere in un altro momento, come se questo, invece, non fosse già vita. Forse è stato lo smarrimento, l’essere presi in contropiede dal virus e il conseguente non sapere cosa fare, confusi da un’informazione assordante e da mille (pur comprensibili) paure.
Abbiamo rischiato di dimenticare che anche questa è vita; anche questo è un tempo da vivere, in cui decidere e volere, amare ed essere amati; un tempo in cui pensare e fare progetti per il futuro (perché, certo, ci sarà ancora futuro!). Limitarsi a pensare che “quando sarà finito tutto, allora sì…” oppure rimandare la decisione di vivere “quando tutto sarà finalmente risolto” rischia di essere solo un’illusione o, comunque, significa lasciar ingrigire e fluire invano una parte importante della nostra vita.
Le parole dell’Arcivescovo ci tornano, quindi, particolarmente preziose, proprio ora, mentre si intravedono nuovi motivi di speranza all’orizzonte. E se in questi mesi, irretiti dalla paura o storditi dalla “infodemia”, cioè dall’eccesso di informazioni che ci ha sovrastato e confuso, abbiamo vissuto quasi in un mondo parallelo, come sospesi, siamo ancora in tempo per cambiare.
Per vivere una vita più vera già adesso. Non domani o “quando finalmente tutto finirà”, ma qui e ora.
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