Tra rassegnazione, paure e speranze: il commento di don Mario Antonelli, vicario episcopale per l’Educazione e la celebrazione della fede, alla Proposta pastorale dell’Arcivescovo
«Abbiamo bisogno di riflettere sulla preghiera, abbiamo bisogno di pregare. Non riesco a non pensare che la tristezza, il grigiore, il malcontento possano avere una radice anche nel fatto che preghiamo troppo poco».
Con questa convinzione l’Arcivescovo definisce il senso e la logica della sua Proposta pastorale per l’anno 2022-2023. La rassegnazione, di cui parla l’Arcivescovo, va individuata soprattutto su due fronti.
C’è una sorta di rassegnazione che anima un attivismo confuso, ansioso, forse tipico di questa fase di ripresa dopo la pandemia, per cui si rischia di considerare come irrilevante la preghiera.
L’altro fronte è invece un diffuso ricercare l’interiorità, che è una cosa positiva in sé, ma di questi tempi è una ricerca che stentatamente si schiude a un dialogo, a una parola del cuore che dia del “tu” a Dio, che rende grazie, che invoca; è più una sorta di parlare con se stessi.
I discepoli del Signore Gesù domandano la pace e lo fanno sempre ringraziando; sperimentano ogni giorno quella vita nuova che il Signore dona. È una vita nuova fatta di fraternità, addirittura di fraternità universale, di riconciliazione laddove i conflitti sono particolarmente laceranti, di quella pace che Gesù dona all’umanità intera. Pregare per la pace significa, quindi, ritrovare la propria responsabilità di essere operatori, mediatori, testimoni della pace.
A tale proposito, mi pare molto illuminante questa espressione della Proposta: «La preghiera non è mai una delega a Dio perché faccia ciò che noi non facciamo». Invece la preghiera, in particolare per la pace, così come in questi anni è stata per la salute in tempo di pandemia, spesso pare chiedere a Dio un intervento per compensare le nostre malefatte o le nostre inadempienze.
È doveroso imparare a pregare ogni volta: tutti portiamo dentro, come connaturale alla vita di ogni giorno, il pregare, il dire un desiderio, auspicando un futuro migliore, il realizzarsi di qualche promessa che si annida nel vissuto quotidiano. Ci sono momenti nella vita in cui è inevitabile pregare, rivolgersi a quello che tutti ancora chiamano Dio o sentono come Dio.
La questione che la Proposta mette a fuoco è come pregano i discepoli secondo l’insegnamento di Gesù: «Non pregate come fanno i pagani sprecando parole», oppure – e questo campeggia nella Proposta pastorale -, «quasi ingiungendo a Dio di fare la vostra volontà; non pregate come se nella preghiera noi dovessimo piegare la volontà di Dio a fare il bene».
I discepoli di Gesù pregano non perché Dio sia buono, ma perché Dio è buono e così dobbiamo fare noi.
È importante pregare in famiglia, perché l’ambito familiare è la casa, luogo di comunione del tutto singolare, nativa, primordiale.
È il luogo dove l’uomo e la donna vivono come una carne sola, in un vicendevole amarsi quotidiano, impegnativo, gioioso e faticoso.
È il luogo dove i figli sperimentano la cura vicendevole e l’affetto reciproco.
Il luogo di una vita divina, l’amore, che deve, poi, dilatarsi sui confini di una comunità cristiana.
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