La violenza del tutto dovuto: il falso amore

Abbiamo letto ed ascoltato molti commenti sulla vicenda di Giulia Cecchettin uccisa dal suo ex fidanzato Filippo Turetta.
Tra i tanti mi hanno colpito le considerazioni di Federico Pocchetto su Il Sussidiario e di Marco Erba su Avvenire a margine di questa vicenda.

Inizio dalle riflessioni di Federico Pocchetto che mi sembrano particolarmente significative e stimolanti. “Non si tratta solo di denunciare l’ennesimo femminicidio e non si tratta neppure di sottolineare soltanto una cultura maschilista che fa della donna – di ogni donna – una possibile vittima. C’è qualcosa di più profondo in questa vicenda.

La cultura che ha dominato l’Occidente a partire dal XVIII secolo insegna che l’uomo è radicalmente libero, che l’unico legame – l’unico debito – che egli ha con la società è quello fiscale: una volta che le tasse sono pagate, nulla deve turbare il desiderio umano, nulla gli deve essere negato. La realtà è ben diversa: non sono solo i tributi a cementare l’appartenenza alla comunità, ma anche l’esercizio di alcune scelte e di alcuni valori.

Nessuno può desiderare quello che vuole e nessuno può fare quello che vuole: il desiderio ha un limite, la volontà individuale è chiamata ad avere un argine. Il compito decisivo di una comunità è abituare ogni cittadino ad accettare l’edificio normativo che fonda la convivenza civile: accettare che non puoi avere quello che vuoi, che non hai diritto di prendere tutto, che devi imparare a stare in contatto con la possibilità che la vita ti dica di “no”. È quindi giusto leggere questo delitto alla luce di una questione di genere, che evidentemente esiste, ma non si può ridurre questo delitto ad una questione solo di genere: è la fragilità umana che – esasperata da una cultura in cui tutto è dovuto – svela il proprio lato terribile e violento.

C’è tuttavia un ultimo passaggio che sarebbe disonesto omettere: questa storia ci racconta di un uomo convinto che tutta l’attesa del proprio cuore sarebbe stata esaudita dal possesso di una donna, che gli risolvesse la vita, che gli riempisse il cuore, che fosse lei a curargli le ferite dell’anima. E non ha retto l’amara scoperta che lei non era tutto, ma un po’ meno di tutto, che lei non voleva essere un oggetto nelle sue disponibilità, ma una persona con la sua volontà e la sua storia.

Quanta violenza cova nelle nostre case ogni volta che non percepiamo l’altro come segno, come mistero. Tutto si trasforma in pretesa e ogni azione diviene potenzialmente un gesto di barbara violenza. Se non apparteniamo ad un grande amore, ogni amore si rivela troppo piccolo. E ciò che prima curavamo come la nostra rosa più preziosa diventa terminale di un orrore e di un odio senza fine. Non esiste realtà che non tradisca la promessa del cuore perché il cuore è fatto per l’infinitamente grande e si dispera per ciò che scopre più piccolo” (F. Pocchetto).


Il secondo testo è di Marco Erba. Il noto romanziere (ricordiamo il suo bellissimo libro “Fra me e te”) rilegge quel che è accaduto a partire dall’educazione all’amore. Così scrive: “Cos’è l’amore? Cosa significa dire a una persona “ti voglio bene”?

Se “ti voglio bene”, significa “mi fai stare bene”, la radice tossica del possesso è già presente. Se l’altro è importante per me perché mi regala benessere, significa che al centro ci sono io. Che quella relazione sarà basata su una forma subdola di egoismo.

In una relazione così, il seme della violenza rischia di insinuarsi: se ciò che conta è che mi fai stare bene, tu devi continuare a farlo. “Tu sei mia e di nessun altro”. L’amore possesso rende l’altro un oggetto al servizio del mio piacere, della mia felicità.

Un oggetto che posso controllare, un oggetto che deve rispondere ai miei bisogni. Ma l’amore non è mai possesso. Chi ama davvero, quando dice “ti voglio bene”, non intende “mi fai stare bene”, ma intende “voglio il tuo bene.” Se ti amo davvero, voglio che tu sia felice, perché al centro ci sei tu, non ci sono io. Perché l’amore è dono. Se ti amo davvero, voglio che tu sia ciò che vuoi tu, non che tu sia ciò che voglio io. Più l’amore è grande, più è liberante.

Lo racconta benissimo un film del 2003, Una settimana da Dio, in cui un giornalista, che riceve da Dio tutti i suoi poteri di onnipotenza, si accorge che quando la sua fidanzata lo lascia, e lui prova ad attirarla di nuovo a sé col suo potere “da Dio” ordinandole di amarlo, si rende conto di essere non potente: lei tira dritto e se ne va. A quel punto protesta con Dio: se non può obbligare la sua ragazza ad amarlo, Dio non lo ha reso davvero onnipotente come lui, lo ha preso in giro. Dio però lo spiazza.

Gli risponde che nessuno può obbligare un altro essere umano ad amarlo, nemmeno Dio stesso. Perché il criterio supremo dell’amore non è la passione. Il criterio supremo dell’amore è la libertà”

M. Erba

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